La Confraternita del SS.mo Sacramento e di Gesù flagellato nella Chiesa della Nova a Lecce. Un singolare evento: la statua del Cristo alla Colonna.
La confraternita del SS.mo Sacramento a Lecce
Nel XIX secolo sorgeva a Lecce la Confraternita del Santissimo Sacramento, che fu fondata, sotto l’Episcopato di Mons. Caputo, nella Chiesa della Novail 1 settembre 1825[1], su iniziativa dei signori Cesare Martina, Eustachio Bruno, Vito Cirillo e Francesco Pallara. Tale Chiesa, tuttora esistente, è dedicata alla Natività della Beata Vergine Maria ed è situata nell’antico portaggio di San Giusto, in Via Idomeneo, nel centro storico cittadino. La Chiesa fu costruita, per la prima volta, nel 1470 e ospitava le suore domenicane, che detenevano l’annesso convento. Nel 1703 fu ricostruita a spese del Barone di Torchiarolo, Giuseppe Angrisani.[2]
A Lecce non mancava certamente la devozione al Santissimo Sacramento, tanto che una delle più antiche confraternite cittadine era dedicata all’Eucaristia e sorgeva nella Cattedrale di Lecce, dove fu eretta nel 1506[3], e fu aggregata all’omonima confraternita di S. Maria sopra Minerva a Roma. Per diverso tempo, detto Sodalizio fu attivo in Città e, giacché sorgeva in Cattedrale e si riuniva precisamente nella Cripta, non poteva sfuggire all’occhio vigile del Vescovo. Giulio Cesare Infantino ricorda che, ai suoi tempi, ossia nel secolo XVII, la Confraternita era governata da 24 persone “et ogni anno con l’intervento del Vescovo e del Sindico, di cui sono i primi voti, s’eligono due mastri, uno Gentil’huomo e l’altro Cittadino, che tutto l’anno somministrano le cere, quando si porta il Santissimo Viatico all’infermi alle processioni che si fanno ogni terza Domenica di ciascheduno mese, et alla sontuosissima processione e festa, che si fa nelli giorni del Santissimo Corpo di Christo”[4]. Tra i principali compiti della Confraternita vi era quello di promuovere il culto eucaristico, non far mancare il viatico ai confratelli infermi e, unitamente alla cura della spiritualità liturgica, il pio Sodalizio si dedicava alle opere di carità. In modo particolare, vi era la cosiddetta opera dei “poveri vergognosi”, il cui scopo era quello di alleviare con ogni riservatezza le miserie di coloro che “arrossiscono per la vergogna di mendicare”[5]. Mons. Pappacoda, nella sua relazione per la visita ad liminacompiuta in Cattedrale nel 1641 annotava che i confratelli dediti a quest’opera di misericordia non erano tenuti a rendere conto del loro operato, proprio per garantire la riservatezza degli aiuti caritatevoli e, pertanto, dovevano essere scelti tra persone di comprovata esperienza e di maggiore integrità di vita[6].
Se il XVI e il XVII secolo furono periodi di grande attività del pio Sodalizio, il XVIII secolo fu l’ultimo periodo di vita della medesima. Probabilmente molto influirono le disposizioni del “Trattato di accomodamento tra la Santa Sede e la Corte di Napoli” del giugno del 1741, riguardanti l’accatastamento di “tutti i beni, di qualsivoglia natura siano, posseduti dagli Ecclesiastici Secolari e Regolari”, che comportarono una serie di grosse difficoltà economiche per le Confraternite, visto che ogni acquisto fatto da un ente o associazione ecclesiastica doveva essere sottoposto a tutti i tributi regi[7].
Questa difficile situazione economica riguardò certamente la Confraternita leccese del Santissimo Sacramento, visto che nelle Relazioni della Visita ad liminadel Vescovo della diocesi leccese, Mons. Scipione Sersale, si legge che la Confraternita del Santissimo Sacramento dovette ricorrere alla scelta di Rettori economicamente stabili che, con un pagamento annuale, fissato in trecento ducati, dovevano sovvenire a proprie spese alle necessità del Sodalizio[8].
Nella visita canonica del 1832, tenuta dal Vescovo Caputo, vengono redatti i verbali delle Visite a 5 confraternite cittadine, cioè quelle del Ss. Crocifisso, di San Francesco di Paola, del Rosario e della Santissima Trinità, ma non si fa menzione della Confraternita del Santissimo Sacramento della Cattedrale[9]. Se è certamente vero che, in quella circostanza, non tutte le Confraternite cittadine furono soggette alla Visita Canonica, appare del tutto singolare che proprio il Sodalizio, sito in Cattedrale, non fu fatto oggetto della visita episcopale. Molto probabilmente, la Confraternita si era naturalmente estinta.
Proprio detta estinzione, avvenuta tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, portò la cittadinanza salentina a dare nuovo slancio alla devozione al Santissimo Sacramento, mediante l’istituzione della Confraternita del Santissimo Sacramento all’interno della Chiesa della Nova.
La statua del Cristo Flagellato alla Colonna
L’anno 1883 segna un punto di importante svolta per la nuova Confraternita che si riuniva nella Chiesa della Nova. Infatti, oltre al titolo del Santissimo Sacramento, il pio Sodalizio si fregiò anche del titolo di Gesù Flagellato e ciò avvenne in seguito a un fatto di cronaca, che i giornali del tempo e non solo riportarono con grande enfasi.
Infatti, nella notte tra il 12 e il 13 maggio del 1883 avvenne a Lecce un evento che mise in subbuglio la città. Di per sé, non si trattava di una questione di rilevante importanza in ambito politico o ammnistrativo, ma piuttosto di un atto che commosse la cittadinanza civile e scosse la fede cristiana di un intero popolo. Se l’epoca era molto travagliata perché, in seguito all’unità d’Italia, forti erano le due fazioni cittadine, l’una a favore dei Savoia e di ispirazione carbonara e rivoluzionaria, e l’altra a favore dei Borboni e della reazione all’annessione del Regno ai Savoia, nondimeno il fervore religioso e cattolico caratterizzava la stragrande maggioranza della popolazione, abituata a venerare con fervore i suoi Santi e sempre attiva nell’erigere edicole e oratori in ogni punto della città.
La domenica mattina, 13 maggio 1883, non fu rinvenuta nel suo solito posto la statua di Gesù alla colonna, che, dopo varie ricerche, il 15 maggio si scoprì essere stata gettata in un pozzo. Anche il Vescovo dell’epoca, mons. Zola, ne fece menzione nel decreto di costituzione del nuovo titolo conferito alla Confraternita del Santissimo Sacramento, installata nella Chiesa di Santa Maria della Nova[10].
Mani sacrileghe, infatti, avevano preso la statua lignea di Gesù flagellato, sita in una nicchia nelle vicinanze dell’attuale Via Matteotti, e decisero di gettarla in uno dei pozzi viciniori, ubicato sotto l’arco dei Milanesi, cioè in quel quadrante compreso tra Via Matteotti e Via dei Templari[11].
I leccesi, non rinvenendo nel suo solito posto quell’immagine sacra in legno di pregevole fattura veneziana, decisero di intraprendere le dovute ricerche e ben presto ritrovarono il simulacro. Il popolo rimase veramente scosso e per riparare l’atto sacrilego volle fare istanza al Vescovo affinché potesse nascere in Città una nuova Confraternita dedicata a Cristo Flagellato e chiese di ubicare la menzionata effigie in una Cappella, laddove avrebbe trovato sicuro riparo.
Le parole usate dal Vescovo Zola, che descriveva gli avvenimenti in modo sintetico e appassionato, meritano di essere ricordate. Infatti, il Vescovo, nel suddetto decreto del 28 maggio 1883, redatto solo due settimane dopo il triste avvenimento, scriveva: “Se con vero dolore dell’animo Nostro sentimmo consummato in questa Nostra dilettissima Città da un figlio delle tenebre un orrendo sacrilegio per aver egli profanato una statua rappresentante la Flaggellazione di N.S.G.C., avemmo però la consolazione di vedere per questo turpissimo fatto ravvivarsi la fede nei generosi Leccesi che spontaneamente e solo per il sentimento religioso accorsero per più giorni con fervore cattolico a visitare la santissima Statua, e con suppliche, con frequenza di Sacramenti, con elemosine e con tutti i mezzi cristiani cercarono riparare l’ingiuria fatta a G.C. e pregare anche per la conversione e per il ravvedimento dello sciagurato che acciecato si spinse a tanto delitto”[12].
Si può notare come il Presule leccese, a pochi giorni dall’avvenimento, non solo assicurasse la storicità dell’evento, ma indicasse un solo individuo, come autore del misfatto, sebbene la pesantezza della statua dovette fin da subito far pensare a un gruppo di persone.
Il 10 settembre del 1930, il priore della Confraternita del Santissimo Sacramento e di Gesù Flagellato, nel trasmettere la Relazione circa lo scopo di culto della Confraternita, ricordava come la Congrega “venne fondata nella Chiesa della Nova nel 1825” e spiegava il motivo per cui nel 1883, con decreto di Monsignor Luigi Zola, fu aggiunto il titolo di Gesù flagellato: “Ciò perché nel 15 maggio del 1883 venne estratta da un pozzo, sito sotto l’Arco dei Milanesi, una statua di Gesù Flagellato alla Colonna; la quale, dopo solenne processione, venne collocata nell’ultimo altare a sinistra più vicino al maggiore”[13].
Il 30 dicembre del 1935, nel Regolamento interno della Confraternita del SS.mo Sacramento di Gesù Flagellato, il Padre Spirituale dell’epoca, Don Antonio Miglietta, spiegava che: “il 15 maggio dell’anno 1883, dopo il sacrilego oltraggio compiuto da due cittadini leccesiin danno del Santo simulacro di Gesù alla Colonna, la Rev.ma Curia, con decreto canonico, faceva collocare la detta statua nella chiesa omonima aggiungendovi il doppio titolo di Gesù Flaggellato. Sicché da quell’epoca è titolata “SS. Sacramento e di Gesù Flaggellato”[14].
All’inizio, dunque, si pensò a un solo autore del delitto, ma, probabilmente, dopo accurate ricerche, si venne a sapere dell’esistenza almeno di un complice.
La narrazione del Vescovo Zola, contemporanea ai fatti, continua annotando la religiosità del popolo leccese e il motivo che indusse il Presule ad arricchire di un nuovo titolo la Confraternita del SS.mo Sacramento.
“Avrebbe voluto anzi questo divoto popolo leccese installare all’oggetto una novella Congrega; ma perché grazie a Dio sono moltissime le pie fratellanze, le Associazioni Religiose canonicamente erette in questa città, e anche volendo accrescerle mancherebbero le chiese per gli esercizi pietosi scopo principale di esse pie – fratellanze. Dopo ben maturato un tale affare ai piedi di G.C. e dopo pratiche prudenziali, con la nostra ordinaria potestà abbiamo disposto che il simulacro di Gesù Flaggellato alla colonna venisse collocato ed avesse culto nella Chiesa di S. Maria della Nova, e contemporaneamente abbiamo ordinato ed in virtù di questo nostro decreto disponiamo che da oggi e per l’avvenire la Congrega del SS.mo Sacramento, che si trova installata e funziona nell’indicata Chiesa della Nova, aggiunga in perpetuo al suo titolo primordiale l’altro di Gesù Flaggellato, in guisa che per l’avvenire sarà segnata e denominata Congrega del SS.mo Sacramento e di Gesù Flaggellato”[15].
In effetti, la statua fu collocata nella Chiesa della Novae divenne oggetto di culto e devozione popolare. Oltre al culto al Santissimo Sacramento e alla venerazione del Cristo alla Colonna, nella Chiesa della Nova, a partire dal 1900, fu introdotta la devozione alla Madonna Assunta in Cielo. Infatti, nel 1930 il priore Giurgola scriveva: “or sono trenta anni alla suddetta Congrega fu aggiunto un pio sodalizio di parecchi Confratelli di Maria Assunta, e la statua della titolare venne situata su di un altare a sinistra”[16].
Il medesimo Priore riferiva che i confratelli celebravano solennemente la festa del Corpus Dominie nelle tre processioni dedicate all’Eucaristia durante l’anno, la Confraternita del Ss.mo Sacramento doveva precedere tutte le altre Congreghe e aveva il privilegio di portare il baldacchino. Oltre alle feste eucaristiche, “si celebrano ancora altre novene, e tridui e settenari, per festeggiare l’Assunta, la Natività di Maria e per suffragare le anime”[17]. In realtà, la festa dell’Assunta era stata importata dalla fusione con i succitati e omonimi confratelli, mentre la festa della Natività della Vergine era solennizzata, in quanto la Chiesa che ospitava la confraternita era dedicata proprio alla Natività. Non essendoci una festa dellaflagellazione del Signore, non vi erano specifiche celebrazioni in onore di Cristo flagellato, ma la devozione e l’amore per quella statua lignea doveva rimanere sempre presente nel cuore dei confratelli, che i venerdì di ogni settimana si riunivano per pregarlo[18]. Questi andavano fieri del fatto che la Chiesa della Nova, oggetto di ripetuti restauri, era ritenuta una bomboniera per la sua piccolezza, e anche una miniera di arte, visto che ospitava ben 5 quadri dipinti da don Oronzo Tiso[19]. La statua lignea del Cristo flagellato fu situata in un altare ottocentesco e spiccava per la sua bellezza tipicamente veneziana[20].
La devozione e il “miracolo”
La devozione popolare ha custodito e tramandato, fra i devoti, la certezza che i giovani autori del sacrilego delitto avessero fatto una triste fine ed avuto una morte prematura[21]. Purtroppo, non è stato possibile rinvenire alcun documento che riportasse i nomi degli autori del “sacrilego gesto”.
Molte volte la storia copre con una impenetrabile coltre gli eventi, e risulta impossibile poter verificare l’attendibilità storica di fonti e notizie; in alcuni casi, è possibile formulare delle ipotesi, più o meno verosimili, ma quando ci si trova dinanzi “alle voci del popolo” peraltro affievolite dal passare degli anni, lo storico non può far altro che fermarsi e constatare l’impenetrabilità della ricostruzione.
All’inizio, sembrava che anch’io mi dovessi fermare a constatare la storicità dell’episodio legato all’atto irriguardoso perpetrato contro il simulacro di Cristo, per poi registrare il fatto che “la leggenda” della morte prematura dei delinquenti non avrebbe potuto mai godere dei crismi della storicità, perché non suffragata dalle fonti. Ad un certo punto, però, la ricerca è giunta ad una svolta, dettata non dalla scoperta di un documento, bensì dall’incontro con una persona, il Signor Massimo Madaro (nato a Lecce il 20 settembre del 1948). Avendo saputo, tramite don Giovanni Quarta, che costui conosceva la “storia” del Cristo alla Colonna, e che affermava che in famiglia si diceva che uno degli autori del misfatto fosse un certo Madaro Gaetano, mi permisi di contattarlo e di ascoltarne la testimonianza. Massimo Madaro asseriva che in famiglia il turpe evento era noto, sebbene se ne parlasse con circospezione, perché creava notevole disagio. Il reo doveva chiamarsi Gaetano e doveva essere un avo di Benedetto Madaro (nato a Lecce il 20 settembre del 1915), padre del Signor Massimo[22]. Inoltre, il Signor Massimo Madaro rammentava che in famiglia si parlava di altri correi, i quali sarebbero morti, in giovane età, proprio come segno della giustizia divina. Massimo Madaro seppe di questa “storia”, quando andò a trovare a Napoli un parente di suo padre, mentre anche sua madre gli raccontava di questo avvenimento, senza fornire molti dettagli, ma indicando il nome dell’autore del “turpe gesto”: Gaetano Madaro, e specificandone la morte, a causa di un “bubbone”.
In effetti, questa tradizione orale che conduceva a considerare come i rei del delitto fossero andati incontro a una tragica morte, è stata riportata anche da uno storico leccese, Rino Buja, il quale così scriveva nel 1994:
“Da alcuni contemporanei all’accaduto, ho sentito più volte raccontare, con molta convinzione, che i tre sacrileghi pagarono duramente, in seguito, il loro gesto insano: uno di essi che aveva retto la statua per le gambe, nel tentativo di superare con un salto una pozzanghera, cadde malamente e si fratturò entrambe le gambe; poco dopo subentrò, non si seppe come, una inarrestabile infezione che degenerò in cancrena, e il malcapitato morì. Il secondo, che aveva retto la statua per il capo, in seguito a non ricordo quale particolare accidente si ruppe la testa e ne ebbe anch’egli la morte dopo una lunga e sofferta agonia. Il terzo, che aveva retto per le spalle il simulacro, morì per un bubbone di natura maligna che gli era improvvisamente spuntato sulla schiena. Prima di morire, lucidamente consapevole che quel male terribile era la vindice conseguenza del commesso sacrilegio, al chirurgo dottor Vito Fazzi, suo amico, che l’operava in un estremo quanto inutile tentativo di salvargli la vita, egli, convinto dell’inutilità di quell’intervento, ripeteva, in tono scettico e rassegnato: Tagghia, Itu, ca te dhrai lu zzeccai, Taglia Vito che da quella parte lo afferrai”[23].
Il medesimo autore prosegue la sua narrazione, volendo però avvertire che, nonostante le testimonianze contemporanee agli eventi vi fossero, egli non voleva assumersi la responsabilità di considerare storico l’evento accaduto. In effetti, incerto è il numero delle persone che avrebbero commesso il delitto, poco chiaro era anche il movente che li spinse e, pertanto, il Buja proseguiva:
“Anche se quella storia la sentii ripetere più volte da persone degne di fede (o in buona fede) non mi azzarderei proprio di avallarne la veridicità. Di certo è che la statua lignea di Gesù… rimase definitivamente alla Chiesa di Santa Maria della Nova, sulla via Idomeneo; l’empatica epigrafe vagheggiata dal can. De Giorgi non fu mai incisa, e l’Arco già di Cristo alla Colonna cominciò da allora, e in seguito sempre con maggior frequenza, a denominarsi, l’Arcu de Cristu ‘bbasciu ‘llu puzzu, (l’Arco di Cristo giù nel pozzo); non solo, persino il simulacro di Gesù che poi la sera del giovedì santo veniva portato processionalmente in giro per le vie cittadine, non fu più la statua di Cristo alla Colonna, bensì de Cristu bbasciu lu puzzu”[24].
A differenza del Buja, io potevo contare sulla possibilità di indagare in merito alla figura di Gaetano Madaro, presunto autore del delitto, e così ho potuto rinvenire dei dettagli talmente interessanti, da poter dare credito a quella che, altrimenti, sarebbe rimasta solo una pia leggenda.
Andando a ritroso nel tempo, un avo di Massimo fu il rivoluzionario monteronese Gaetano Madaro, da cui prende inizio il presente esame storico.
Madaro Gaetano senior (Monteroni, 8 gennaio 1808- Lecce, 1898)
Un rivoluzionario, appartenente alla famiglia Madaro, fu quel Gaetano che nacque all’inizio del 1808. Dal registro dei battesimi conservato nella Chiesa matrice di Monteroni si desume che Cajetanus Salvator Vincentius Madaro nacque a Monteroni l’8 gennaio 1808 alle ore 23, da Antonio Madaro (figlio di Gaetano il quale si era sposato con Rosa Miglietta) e Apollonia Podo (figlia di Giuseppe Podo e Maddalena Zilli). Padrini di battesimo furono Dr. Phys[25]. D. Salvatore Miglietta, et Raffaella Podo (figlia di Oronzo Podo)[26].
Gaetano Madaro, già negli anni giovanili, fu inserito nella mazziniana Giovine Italia, qualche anno dopo la sua istituzione a Lecce. Al riguardo, scrive il Palumbo che: “La introdussero in Lecce Epaminonda Valentini e Salvatore Pontari e ne fecero parte Fortunato Gallucci, Vincenzo Abati, Vincenzo Cepolla, Michele Piccinni, Brizio Elia e più tardi Gaetano Madaro di Monteroni. Il duca di Cavallinno vi appartenne per dieci giorni, ma dopo, “convinto sino all’evidenza che nella setta non si ragiona ma s’impone”, ne dovette uscire (Nota n° 7 – SIGISMONDO CASTROMEDIANO, Carceri e galere politiche. Memorie del duca Sigismondo Castromediano, Lecce 1895, I, p. 18)”[27].
Il Madaro era un sarto e partecipò a riunioni ed attività clandestine e antiborboniche durante i moti rivoluzionari del 1848. Fu nominato all’interno di un comitato di 11 membri, che inizialmente si definì “governo provvisorio”.
L’anno precedente, nel 1847, si sposò con Donata Maria Castellucci(o), giovane ventenne di Lecce, nata il 12 giugno 1827 (aveva quindi la metà dei suoi anni), figlia del fu Oronzo e di Lorenza Marti. Il matrimonio venne celebrato il 7 agosto 1847 nella Cattedrale di Lecce alla presenza dei testimoni don Salvatore Quarta e don Giuseppe Balzani di Lecce, mentre il rito civile si tenne presso la Casa del Comune davanti al sindaco Pasquale Personè. Risulta singolare la professione di Antonio, padre di Gaetano Madaro, definito salassatore[28]. Testimoni civili furono Salvatore Quarta di anni 32 e di professione scrivano, Giuseppe Balsamillo di anni 40, che faceva il “cappellaro”, Andrea Calabrese di anni 40 sarto e Gaetano Zimmari di anni 23, sarto, tutti di Lecce. Al momento della promessa di matrimonio, avvenuta nella sala comunale del capoluogo salentino, si diede lettura, tra l’altro, dell’atto della scomparsa del padre e del nonno della sposa, la quale, essendo minorenne, dovette ricevere “il consenso per detto matrimonio”[29].
Il medesimo storico Palumbo ricordava come nel settembre del 1848 iniziò la reazione dell’autorità borbonica dinanzi al governo provvisorio e ciò produsse una serie di arresti, tra cui quello del Madaro:“Il 13 settembre entrarono in Lecce con atteggiamento ostile, perfino con le micce accese dei cannoni, quasi la città fosse in tumulto. Quando fu notte, corsero per le strade stuoli di poliziotti, di gendarmi, di spie a invadere le case in cerca di liberali. Se ne arrestarono tredici. Per eseguire la cattura si rifiutò di intervenire, come doveva per legge, il sindaco don Luigi Bozzicolonna, il quale si scusò dichiarandosi ammalato. Il decurione don Vincenzo Recchia non fu reperibile. Il solo giudice regio accompagnò Luigi Cappellani 1° tenente di gendarmeria. Furono arrestati in casa: Pasquale Persico, nonostante la moglie volesse nasconderlo, Salvatore Stampacchia, Giuseppe e Domenico Corallo, Carlo D’Arpe, Bernardino Mancarella, Leone Tuzzo, Francesco e Michelangelo Buia (Nota n. 2 – ARCHIVIO PROVINCIALE, Verbale del 13-14 settembre (1848); A.S.L., Intendenza di Terra d’Otranto, Polizia, Detenuti politici, fasc. n. 2891). Il 20 settembre il caporale Antonio Susca arrestò il sarto Gaetano Madaro, il cieco don Giuseppe De Simone, il parroco greco don Camillo De Rada, Paolo Tuzzo, Pasquale Letizia, Domenico De Matteis, Matteo Persico, Nicola Brunetti, Raffaele Albanese, Giulio Cosma, Gabriele Verri, Bernardino Mancarella, Gaspare Balsamo, Vincenzo d’Arpe, Salvatore delle Side, Francesco Monaco, Filippo Patisso e molti altri. L’avvocato Achille Bortone si presentò spontaneamente. Arresti vennero eseguiti nel contempo in diverse altre città”[30].
Il 28 agosto del 1850 si aprì il relativo processo presso la Gran Corte speciale di Terra d’Otranto e furono sottoposti a giudizio ben 36 indagati. Tra questi, anche Gaetano Madaro, il quale fu condannato per cospirazione contro il re, avvenuta in associazione. La sentenza fu letta dal cancelliere del Tribunale il 2 dicembre del medesimo anno e comminava al Madaro quattro anni di reclusione, unitamente al Dell’Antoglietta, nonché l’esborso di duecento ducati, a pena espiata[31].
In realtà, le accuse che vennero mosse al Madaro erano molto più ampie della effettiva condanna che poi gli fu comminata. Questiè citato nei seguenti capi di imputazione conservati nell’Archivio di Stato di Lecce e prodotti dalla Gran Corte Criminale e Speciale di Terra d’Otranto:
- Il primo presunto crimine riguardava la citata proclamazione di un Governo Provvisiorio in Lecce, avvenuto il giorno 19 maggio 1848 durante il governo di Ferdinando II. Gli imputati erano: Nicola Schiavoni, di Manduria, proclamatore del Governo Provvisorio; Salvatore Stampacchia, di Lecce; Raffaele Albanese, di Galatina; Michelangelo Verri, di Lecce; Domenico Corallo, di Lecce; Gaspare Balsamo, di Lecce; Gaetano Madaro, di Monteroni; Salvatore delle Site, di Lecce; D. Nicola Valzani, di S. Pietro Vernotico, sacerdote[32].
- Il secondo presunto reato riguardava la creazione del Comitato di Sicurezza Pubblica, cioè un’associazione di più persone, che si riuniva nel convento dei Padri Teatini di Lecce, per occuparsi dell’andamento della cosa pubblica, senza il permesso dell’autorità regia. Tra i diversi atti compiuti dal Comitato veniva menzionata la proibizione al Ricevitore Generale di spedire a Napoli somme di denaro, la disposizione che il Telegrafo non segnalasse i fatti che avvenivano a Lecce, e la determinazione che la Guardia Nazionale fosse provvista di munizioni ed eseguisse gli ordini del Comitato. Ciò esprimeva di fatto un’amministrazione indipendente da quella proveniente dall’autorità legittima. Il menzionato reato si sarebbe consumato a Lecce a partire dal 19 maggio 1848 e vedeva imputati: Schiavoni Nicola di Manduria; Verri Michelangelo; Arseni Luigi; Leone D. Giosuè canonico; Balsamo Vincenzo; Stampacchia Salvatore; Elia Brizio; Casavola Francesco; Piccioli Giuseppe; Madaro Gaetano; Licci Errico; Simini Gennaro; Sagarrica D. Nicola Padre Teatino[33].
- L’ultimo capo di imputazione riguardava una generica associazione a delinquere in chiave cospiratoria e la distruzione delle immagini del Re e del suo predecessore, Ferdinando I, compiuta a Lecce il 24 giugno del 1848, nonché la simultanea distruzione delle liste degli elettori ed elegibili per carica di deputati del Parlamento contenuti nella Cancelleria Comunale della medesima Città[34].
Dopo aver scontato la pena a Lecce, Gaetano Madaro tornò in famiglia[35]e di tanto in tanto scriveva a Michelangelo Verri in carcere a Procida. Sono gli anni che preludevano all’Unità d’Italia, i fermenti patriottici animavano i circoli e si viveva in un clima di continua tensione.
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Gaetano Madaro junior, l’autore dell’esecrabile gesto.
Dal matrimonio con Donata Maria Castelluccio nacquero diversi figli. Il primogenito fu Gaetano Antonio Luigi Achille Madaro, quindi Gaetano figlio di Gaetano, che fu dato alla luce il 6 maggio 1848, qualche mese prima che il padre fosse arrestato. Il medesimo giorno alle ore 18 fu battezzato nel fonte della Cattedrale[36]. Certamente il piccolo Gaetano visse insieme alla madre i primissimi anni della sua esistenza e dovette respirare in casa il dramma di avere un padre in carcere. Il ritorno a casa del rivoluzionario coincideva con il periodo della fanciullezza del piccolo Gaetano, a cui i genitori diedero ben presto dei fratelli. Infatti, nel 1863 nacque Amalia[37], nel 1865 Achille[38], nel 1875 Lorenza[39]. Purtroppo, tante creature nascevano, ma molte morivano prematuramente; le condizioni igienico-sanitarie lasciavano molto a desiderare e la cittadinanza non era munita delle necessarie precauzioni. Non si conoscono le cause della morte, ma la famiglia di Gaetano Madaro soffrì la perdita di Achille e Lorenza, sicché divennero adulti solo Gaetano e Amalia. Anche questa sofferenza dovette segnare la vita di Gaetano junior, il quale fu imbevuto dell’aria anticlericale e liberale, tipica della cultura mazziniana. Nonostante ciò, egli si sposò in Chiesa, nella parrocchia di Santa Maria della Porta, il 24 aprile del 1888 con la trepuzzina Maria Carolina Miglietta, figlia di Vincenzo ed Elisabetta de Franchis. Maria Carolina Miglietta risultava residente a Lecce da dieci anni[40].
Proprio questo, fa comprendere come probabilmente i due convivessero more uxorio in città, anche perché, stando alle ricerche pubblicate da Carlo Miglietta, i due si unirono civilmente il 31 dicembre del 1877 a Trepuzzi[41].
In effetti, la coppia, fin da subito, ebbe diversi figli. La primogenita fu Iudith, fanciulla nata il 1 febbraio 1878 (stando al registro dei battesimi, per un errore materiale, la data riportata fu 1 giugno 1878) e battezzata il 2 febbraio del medesimo anno[42]. La secondogenita fu Giuseppa Anna, la quale nacque il 2 maggio del 1879[43]e, divenuta adulta, si sposò con Indrizzi Gaetano.
La terza fu Donata Vitaliana Romea la quale venne alla luce il 27 dicembre del 1880[44]e morì 12 novembre 1973.
Il 5 gennaio del 1883 nacque Antonia Madaro, la quale fu battezzata il 10 del medesimo mese in Cattedrale[45].
Nel 1884, giunse il desiderato bambino che fu chiamato Oberdan Oronzo. Costui nacque a Lecce il 16 maggio del 1884 e fu battezzato in Cattedrale il 25 maggio dal canonico Donato Malecore. Tra i testimoni è citata Maria Castelluccio, che è la madre di Gaetano junior[46].
Successivamente venne alla luce Salvatore Nobiling (Nobilius) Soloviev, nato il 20 agosto 1886 e battezzato il 5 ottobre del medesimo anno da don Pasquale del Giudice, in Cattedrale.[47]Salvatore Nobiling morì il 23 febbraio del 1937[48].
Il fatto che ai figli maschi fossero stati attribuiti i nomi dell’anarchico Nobiling e dell’irredentista Oberdan lascia supporre che, anche in età adulta, Gaetano Madaro non aveva abbandonato gli ideali risorgimentali, ma, piuttosto, aveva abbracciato idee anarchiche. Molto interessante e, per certi versi, anche “intrigante” è il terzo nome attribuito a Salvatore Nobiling, cioè il Soloviev. Costui, infatti, era un poeta e filosofo russo, ma di ispirazione cristiana, che difendeva i dogmi della Chiesa, pur desiderando un ecumenismo che giungesse all’unità tra cattolici e ortodossi. Non è dato sapere quanto Gaetano conoscesse gli scritti e il pensiero del menzionato filosofo russo, ma certamente ne dovette subire il fascino.
Il 16 ottobre del 1888 nacque Gaetana, l’ultima figlia, denominata “derelicta”, alle ore 21, e fu battezzata il 19 del medesimo mese in Cattedrale, dal canonico De Sanctis[49].
Oltre alle idee imbevute degli ideali carbonari e unitari, anche le opere di Gaetano dovevano manifestare i suoi sentimenti “rivoluzionari”. Per tale ragione, è probabile che corrisponda al vero quanto testimoniato da Massimo Madaro, secondo cui fu proprio il giovane Gaetano, suo antenato, a commettere l’esecrabile gesto di gettare nel pozzo la statua di Gesù flagellato alla colonna. Tale gesto, però, non dovette avere come movente una perdita al gioco, oppure il fumo dell’alcol, ma, più probabilmente, fu il frutto di una consapevole scelta, dettata da un forte sentimento antireligioso.
Pur non avendo un seguito processuale, l’atto ebbe un effetto tragico. Come attestato dal registro dei defunti della Cattedrale, questi scomparve qualche anno dopo il sacrilego atto, all’età di soli 41 anni, nell’agosto del 1889, e precisamente il giorno 12, curiosamente il medesimo giorno in cui compì il turpe gesto[50]. Il padre quindi gli sopravvisse, e conduceva la sua modesta esistenza insieme alla moglie Donata e alla figlia Amalia, quando passò a miglior vita il 19 agosto 1898, alle ore 4 antimeridiane nella sua casa leccese posta, per ironia della sorte, in via Regia Udienza, n° 4[51].
Nel riportare nuovamente il turpe gesto, affidiamoci alla contemporanea narrazione della Gazzetta delle Puglie: “Pochi giorni fa fu trovato mancante da una nicchia in Via Templari un busto di legno veneziano raffigurante l’Ecce Homo. Mercé l’opera della Questura fu trovato in un pozzo, quasi vicino a detta nicchia, posto in un vicolo tortuoso e che serve a dare acqua a molti cavalli di vetturini e a molte famiglie operaie…”[52].
Anche il giornale L’Ordinedel 19 maggio del 1883, tra le notizie di cronaca, riportava l’avvenimento: “In una nicchia sotto l’arco dei milanesi, in via Templari, si trovava da anni ed anni, una statua in legno rappresentante Gesù alla colonna. Ci è chi vuole che quella statua esistesse da tre secoli e fosse d’un legno raro e pregevole. Frattanto, domenica mattina la nicchia fu trovata col cancello aperto, e la statua era scomparsa. Il fatto produsse gran rumore: se ne dette parte alla P.S. e cominciarono le più vive ricerche… Intanto tutta domenica e tutto lunedì a frotte correvano i cittadini sul luogo dell’accaduto per constatare coi propri occhi il fatto. Finalmente martedì la statua fu rinvenuta, e indovinate un po’ dove? In un pozzo ch’è nello stesso arco dei milanesi. Immediatamente venne cavata fuori e da un’immensa calca trasportata nella Chiesa di Santa Maria delle Grazie, dove si diè subito principio a pubbliche preghiere di riparazione. Circa gli autori dell’atto stupido e perverso nulla ancora si conosce di preciso ma noi confidiamo che la locale autorità di P.S. saprà bene scovarli, acciò imparino non essere lecito insultare in un modo tanto basso e villano alla fede di un’intera cittadinanza”[53]
Come detto, il ritrovamento avvenne martedì 15 maggio del 1883, mentre il 28 maggio del medesimo anno, il Vescovo Mons. Zola, dato il numero sempre crescente di pie Associazioni in Città, optò per affidare la devozione a Gesù flagellato alla Confraternita del Santissimo Sacramento, che da allora fu denominata “Confraternita del Ss.mo Sacramento e di Gesù Flagellato”[54].
Secondo il Buja, “La statua lignea di Gesù flagellato era collocata in una edicola posta lungo il muro di sinistra dell’ingresso dell’angiporto, appena dopo un portello a due ante che chiudeva la bocca di un pozzo (un altro pozzo, chiuso anche questo da un portello, era a sinistra dell’ingresso della via Matteotti). Probabilmente quella statua era stata collocata in quel punto per ricordare che in passato proprio di fronte all’edicola, vi era stata una cappella del Salvatore, di iuspatronatodella famiglia Fedele, da moltissimi anni trasformata ormai in casa di abitazione”[55].
Sempre il Buja riteneva che “tre signori della buona società leccese, chi disse spinti dall’ira, chi per aver perduto al gioco una forte somma, chi invece perché in preda ai fumi dell’alcol, rimossero la statua dalla nicchia e la gettarono nell’adiacente pozzo. Naturalmente, dell’atto riprovevole, che aveva fortemente emozionato, turbato e soprattutto indignato l’animo dei leccesi, sono piene le cronache giornalistiche dell’epoca, che di quel fatto forniscono particolari a dovizia. Mi limito tuttavia, per brevità a riportare, quanto ne scrisse il canonico Paolo De Giorgi: “Dietro il grido universale, concorde, fragoroso che si levò nella nostra religiosa Lecce avverso alla sacrilega mano che nottetempo dall’edicola sotto l’arco dei milanesi furò il simulacro, in legno, di nostro Signore alla Colonna, sprofondandolo in un pozzo vicino, della più orrorosa nequizia. Dietro al rinvenuto simulacro che con solennissima pompa, non più veduta, recatasi per le vie della città in compagnia di lunga tratta di gente, composta a sacro silenzio, si allogò ad esecrazione di tanta nefandigia, nella Chiesuola nitida e fulgida, chiamata la Nova. E sopra tutte queste cose, dietro al culto che, nella detta Chiesuola, si tiene vivo nei venerdì di ciascuna settimana, in adorazione di Gesù, passionato per noi, mi si destò il pensiero di scrivere o meglio di compilare tre lezioni all’uopo a cui terrà dietro un’epigrafe, che vorrei si incidesse sotto l’edicola, nell’Arco dei milanesi (La colonna di nostro Signore Gesù Cristo, lezioni pel canonico Paolo De Giorgi, tipografia Campanella, Lecce 1885)[56].
Il Buja riporta, infine, come precedentemente menzionato, che uno degli autori del delitto fosse morto a causa di un “bubbone” spuntatogli improvvisamente dietro la schiena. Inoltre, aggiunge che chi cercò di operare e salvare il delinquente fu Vito Fazzi, medico e chirurgo leccese, nonché amico del malcapitato. Questo aneddoto che, al principio, potrebbe apparire romanzato, costituisce invece un’ulteriore prova del fatto che il delinquente operato fu proprio il Madaro.
Infatti, quando Gaetano Madaro ebbe l’ultima figlia, Gaetana (cioè il 16 ottobre 1888), nel registro dei battesimi tale figlia è definita “derelicta”, probabilmente perché Gaetano soffriva di un morbo maligno, tale da non poter seguire la figlia.
Un altro indizio della grave situazione di salute di Gaetano può essere arguito dalla scelta del nome dell’ultima figlia: come in una staffetta, un Gaetano stava per lasciare questo mondo, mentre una Gaetana vi faceva il suo ingresso.
In effetti, l’anno seguente Gaetano morì. Certamente, in quel tempo, Vito Fazzi operava come chirurgo a Lecce. Inoltre, molto probabilmente, il Madaro e il Fazzi furono realmente amici, in quanto condividevano le medesime posizioni politiche, essendo vicini al mondo risorgimentale e chiaramente schierati in senso anticlericale. Basti pensare che il settimanale pugliese IlRisorgimentodedicò tutto un numero alla vittoria politica del radicale Fazzi, che aveva sconfitto il partito “clericale” nell’elezioni del Collegio di Lecce del 1914. Tra l’altro, così scriveva dei clericali per inneggiare alla vittoria del radicaleFazzi: “Scriviamo a otto giorni di distanza dall’epica lotta, per inneggiare a Lecce nostra che, finalmente, ha spezzato il giogo che la teneva avvinta da cinque mesi ed ha saputo resistere al denaro dei democratici e dei clericali. Ha saputo resistere alle minacce dei preti politicanti ed alle imposizioni dei confessionali, ha saputo reagire sdegnosamente contro ogni atto di corruzione… ha voluto esprimere da signora e non da serva, il suo voto per un uomo che è l’onore della provincia, ha un carattere adamantino, che ha dato prova inconfutabile di non tenere alla medaglina di deputato, disprezzandola, conscio del suo valore che lo rende rispettato ed amato da tutti!”[57]. Sempre il medesimo articolista, non temeva di chiamare i clericali: “spergiuri e mercenari, ministri di satana e non di Dio”[58].
Un altro aspetto che accomunava il Fazzi e il Madaro fu la loro vicinanza alla massoneria. Certamente vi appartenne il primo[59], mentre il secondo vi fu molto vicino, anche considerando che il padre vi aderì pienamente.
In conclusione, l’insieme delle notizie raccolte rende alquanto certo che la mano sacrilega che compì il folle e irriguardoso gesto fu, tra le altre, proprio quella di Gaetano Madaro e la “leggenda” raccontata in merito alla sua prematura morte causata dal vile atto corrisponde piuttosto a una “strana”, ma autentica realtà che la fede popolare ha “riletto” come un segno divino. A volte, infatti, accade che i detti di un popolo manifestino un’innegabile verità.
[1]Cfr. Ufficio Amministrativo Arcidiocesi di Lecce, fascicolo Confraternita del Santissimo Sacramento e Gesù flagellato, Lecce, Copia dattiloscritta di artt. 31 in 5 pagine, approvato da S.E. Mons. Costa il 30 dicembre 1935.
[2]Cfr. Ufficio Amministrativo Arcidiocesi di Lecce, Confraternita del Ss. Sacramento e Gesù Flagellato, Lecce, fasc. Prot. 21.
[3]Cfr. C.MACI, Le confraternite della città e della diocesi di Lecce, Fasano 1991, p. 29.
[4]G.C. INFANTINO, Lecce Sacra, Lecce 1634, pp. 8-9, nella ristampa anastatica a cura di P. DE LEO, Bologna 1979.
[5]ASV, Relationes ad Limina, Lycien 472 A, 1641 aprile 6, Pappacoda fol 160 v
[6]Ibidem
[7]Cfr. C. MACI, Op.cit., pag. 20.
[8]ASV, Relationes ad Limina, Lycien 472 A, 1747 aprile 21, Scipione Sarsale, cc. nn. Fol. 5v
[9]ACAL, Fondo Sante Visitebusta XXXVIII, fasc. 252, Relationes ad limina, Caputo 1832, cc. 1-5 (n.n.).
[10]Ufficio Amministrativo della Diocesi di Lecce, fascicolo Confraternita del Santissimo Sacramento e di Gesù Flagellato, trasmissione documenti, 26 settembre 1930.
[11]L’Arco del Milanese non esiste più, ma se ne vedono alcune vestigia tuttora in Via Matteotti. Proprio questa via, unitamente a via dei Templari, era tra le arterie più frequentate degli inizi del XX secolo.
“Era, quello, un comprensorio di case percorso da viuzze tra le più suggestive ed intime della città e, come poche, ne esprimeva e ne suscitava il sentimento; era un’addizione disordinata di case sorridenti e timide e vezzose come l’aria provvisoria che il tempo aveva conferito ai loro muri, ed era anche una rassegna di bottegucce di merciai e di artigiani che facevano festa davanti ad imprevisti slarghi, orlati, come le vie, di paracarri, innestati ad angoli misteriosi, a gomiti, ad anditi, addirittura ad una galleria – li doi purtuni – ch’era coperta e si snodava con un percorso serpeggiante che s’infilava nelle visceri delle case, attraversava più d’un cortile, dava l’ingresso ad abitazioni e la vera a più di un pozzo e guidava il cammino dei fedeli fino alla Cappella del Salvatore, che vi era contenuta, e congiungeva con un lungo, ingannevole cammino le vie Matteotti e dei Templari” (Cfr. M. PAONE, Lecce elegia del barocco, Galatina 1979, pp. 50-53). Così Pietro Palumbo descrive Via Templari: “aveva ed ha qui e là palazzi neri, affumicati con atrii oscuri e misteriosi, scalette a gomiti, viuzze strette e ad angoli, imbastite di ghirigori e rabeschi […] Più giù, a sinistra, si apriva l’Arco di Cristo Morto detto oggi dei “Milanesi” o del “Milanese”, da una famiglia e da un mercante che vi lavorava sotto. E’ un vico chiuso, quasi privato, che s’insinua sotto i palazzi e va a sboccare nella Via Imperatore Adriano, ed è come una scorciatoia”. Fino al 1964, infatti, l’area compresa tra le vie Matteotti e Templari era denominata “Arco dei Milanesi”; Pietro Palumbo così la descrive: “dall’Arco del Milanese, nel 1950 modificato e ridotto per la costruzione della sede della Banca Commerciale, per una caratteristica strada, quasi coperta (detta li do purtuni), si esce attraverso un fastoso portale nella via che si chiamava della porta S. Martino, ora intitolata a Giacomo Matteotti” (Cfr. CITTÀ DI LECCE, Assessorato Urbanistica, Relazione storica e storico-urbnistica generale, p.46: in https://www.comune.lecce.it/docs/default-source/progetti/relazione-storica.pdf?sfvrsn=abafa6e6_0
[12]Decretodi Mons. Zola del 28 maggio 1883, in Ufficio Amministrativo della Diocesi di Lecce, fascicolo Confraternita del Santissimo Sacramento e di Gesù Flagellato, trasmissione documenti, 26 settembre 1930, s.n.
[13]Relazione circa lo scopo di cultodel priore GIURGOLA del 10 settembre 1930, in Ufficio Amministrativo della Diocesi di Lecce, fascicolo Confraternita del Santissimo Sacramento e di Gesù Flagellato, trasmissione documenti, 26 settembre 1930.
[14]Regolamento interno della Confraternita del SS.mo Sacramento di Gesù Flagellato, di Don Antonio Miglietta, 30 dicembre del 1935, in: Ufficio Amministrativo della Diocesi di Lecce, fascicolo Confraternita del Santissimo Sacramento e di Gesù Flagellato, trasmissione documenti, 26 settembre 1930, s.n.
[15]Decretodi Mons. Zola del 28 maggio 1883, in Ufficio Amministrativo della Diocesi di Lecce, fascicolo Confraternita del Santissimo Sacramento e di Gesù Flagellato, trasmissione documenti, 26 settembre 1930, s.n. In effetti, dotto l’episcopato di Zola, il numero delle Confraternite cittadine cresce notevolmente, fino a giungere a 25 Congreghe.
[16]Relazione circa lo scopo di cultodel priore GIURGOLA del 10 settembre 1930, in Ufficio Amministrativo della Diocesi di Lecce, fascicolo Confraternita del Santissimo Sacramento e di Gesù Flagellato, trasmissione documenti, 26 settembre 1930.
[17]Ibidem
[18]Cfr. Can. P. DE GIORGI (Lezioni), la colonna di nostro Signore G.C., tipografia Campanella, Lecce 1885.
[19]I dipinti del Tiso erano la pala ovale della Natività della Verginee le tele di San Giuseppe, San Nicola di Bari, l’Addoloratae la Vergine col Bambino e San Domenico: cfr. M. PAONE, Chiese di Lecce, vol II; pp. 301-306.
[20]Oggi è ancora possibile ammirare questa statua lignea, all’interno della Chiesa di Santa Maria della Provvidenza, o Chiesa delle Alcantarine a Lecce. Infatti, dopo la decisione arcivescovile di assegnare la Chiesa di Santa Maria della Nova all’Associazione Italia Nostra, la statua fu portata nella Chiesa sita nel portaggio di Porta Napoli ed attualmente è ubicata nei pressi del presbiterio ed ogni visitatore la può facilmente riconoscere, perché posta in una posizione sopraelevata sulla destra.
[21]Nella storia leccese, non si tratta di un unicum. Infatti, riferisce Mons. Marcello Semeraro (M. SEMERARO, Le Apostoliche missioni, Roma 1980, p. 92) che nella Chiesa di Santa Teresa, entrando nella prima cappella a sinistra è conservato l’affresco della Vergine “miracolosa”, che in precedenza era situata sull’altare maggiore della Chiesa della carità, la quale sorgeva poco distante dalla Chiesa di Santa Chiara. Tale immagine “fu ferita da un indegno che poi morì affogato” (cfr. M. PAONE (a cura di), Lecce, Città ChiesaGalatina 1974, p. 91). Chiaramente, questa morte fu vista come un segno della punizione celeste. Due avvenimenti miracolosi relativi alla medesima immagine vengono narrati dall’Infantino, il quale asserisce che l’immagine della Vergine con il Bambino era affrescata su un muro di un’Osteria. Un giovane, avendo perso nel gioco, estrasse un pugnale e colpì il Bambinello raffigurato nell’affresco e da lì uscì abbondante sangue. Lo scellerato, resosi conto di quanto commesso, decise di fuggire, ma fu colto da improvvisa cecità e fu catturato da una guardia, messo in carcere e poi condannato a morte. Un’altra volta accadde che una donna volesse fare le proprie devozioni alla Vergine, ma non si poteva avvicinare a causa delle botti che le ostruivano il cammino. Miracolosamente, tali botti si spostarono dando spazio alla devota che potette toccare la sacra immagine. A causa di questi prodigi, la cittadinanza raccolse i fondi necessari per comprare l’osteria e trasformarla in Chiesa che “rovinata dal tempo è stata di bella forma di nuovo reedificata, come hoggi si vede nell’anno 1616” (cfr. G.C. INFANTINO, Lecce Sacra, pp.190-191). I racconti di Lecce, Città Chiesa (ricordiamo che il Paone ha pubblicato e postillato il documento che un sindaco borbonico di Lecce, cav. Berarducci Vives aveva trascritto e postillato nel secolo XVIII, partendo da un documento del 1760-67 scritto dal cronista Francesco Piccinni) e dell’Infantino comunque farebbero riferimento a eventi accaduti in secoli precedenti e la cui attendibilità è difficile da dimostrare. Inoltre, potrebbe anche essere possibile che il manoscritto di Lecce, Città Chiesa, andato perduto e successivo all’opera dell’Infantino, riferisse succintamente quanto detto dall’Infantino e l’indegno che ferì la Vergine, non morì “affogato”, ma “afforcato”(termine dell’antico italiano che significa “messo alla forca”). Questo potrebbe essere il termine usato nel manoscritto originale e poi mal interpretato.
[22]In effetti, consultando il registro dei battesimi della Cattedrale di Lecce, si constata che Benedetto Salvatore Madaro fu battezzato il 25 settembre 1915 da don Fortunato Leonardo Zizzari, delegato dal parroco della Cattedrale. Benedetto fu un poliziotto e, durante delle sommosse operaie a Brindisi degli anni ‘50, ebbe un incidente con uno schiacciamento al torace, che successivamente comportò un’esportazione del polmone. Benedetto si sposò con Manno Francesca a Lecce. Il padre di Benedetto si chiamava Salvatore Nobiling Solovies, che era figlio di Gaetano Madaro. La madre di Benedetto si chiamava Arsieni Benedetta (nata a Lecce e morì per il parto di Benedetto. Ella era figlia di Oronzo Arsieni). Cfr. ACAL, Liber Baptizatorum, anno 1915, p.73 n.817. Il nome Nobiling fa riferimento all’anarchico tedesco Karl Eduard Nobiling (1848-1878).
[23]R. BUJA, Dalla strada alla storia, Manduria 1994, pp. 216-225.
[24]Ibidem, 225.
[25]“Dottor Fisico” indicava la professione medica realizzata da un laureato, mentre il semplice medico era piuttosto un operatore sanitario.
[26]Cfr. A. PUTIGNANO, Monteroni. Vicende feudali e comunali, Manduria 2001, pp. 579-581. L’autore ha visionato il menzionato manoscritto, che anch’io ho potuto visionare.
[27]Cfr. P. PALUMBO, Risorgimento Salentino (1799-1860), vol. I, Lecce 1911, pp. 515-416
[28]Questa figura era ricompresa tra le attività dei barbieri, i quali erano anche cavadenti. L’attività del salassatore era quella di tagliare le vene per far uscire il sangue e così abbassare la pressione sanguigna. Nel XIX secolo i salassatori si distinguevano dai medici (laureati e chiamati fisici), dai chirurghi e anche dagli speziali (farmacisti), ma erano tutti considerati operatori sanitari.
[29]Cfr. ARCHIVIO DI STATO DI LECCE, Atto della solenne promessa di celebrare il matrimonio, foglio 51 recto et verso.
[30]P. PALUMBO, Risorgimento Salentino (1799-1860), vol. I, Lecce 1911, pp. 496-498.
[31]Ivi, pp. 517-529.
[32]Cfr. M. PASTORE, I processi politici della Gran Corte Criminale e Speciale di Terra d’Otranto dal 1821 al 1861, in “Studi Salentini”, p. 338.
[33]Ivi, pp.339-340.
[34]Ivi, pp. 367 e ss.
[35]Nello Stato delle anime del circondario della Cattedrale di Lecce del 1854/55 a pag. 54 è riportato 18° Isola dell’Incrociata – dalla casa di Silvestro Corona – 2° gruppo familiare composto da Madaro Gaetano.
[36]ACAL, Liber Baptizatorum, n. 83, anno 1848, c.23v
[37]Amalia Maria Vittoria Emmanuela nacque il 28 giugno 1863 e battezzata il giorno seguente. Cfr. ACAL, Liber Baptizatorum, n. 98, anno 1863, c. 29rv.
[38]Achille Oronzo Giuseppe nacque il 1 giugno del 1865 e fu battezzato il 3 giugno in Cattedrale: ACAL, Liber Baptizatorum, n. 100, anno 1865, c.33r, pratica 292.
[39]Lorenza Anna Beatrice nacque il 16 aprile 1875 e fu battezzata il giorno seguente. I testimoni furono Ruggero Serrano e Vincenza Perulli: cfr. ACAL, Liber Baptizatorum, n. 110, anno 1875, c.22v
[40]ACAL, Fondo matrimoni e stati liberi, anno 1888, fascicolo 170
[41]C. MIGLIETTA, Il patriota Madaro, testimone del Risorgimento, in L’Ora del Salento(settimanale diocesano) del 14 novembre 2013, p. 4.
[42]ACAL, Liber Baptizatorum, n. 113, anno 1878, c.12v. Dunque, il matrimonio di Trepuzzi fu un matrimonio riparatore.
[43]ACAL, Liber Baptizatorum, n. 114, anno 1879, c.21v
[44]ACAL, Liber Baptizatorum, n. 115; anno 1880, c.56v
[45]ACAL, Liber Baptizatorum, n. 118, anno 1883, c.2v
[46]ACAL, Liber Baptizatorum, n. 119; anno 1884, foglio 28v.
[47]ACAL, Liber Baptizatorum, n. 121; anno 1886, foglio 66, pratica 720. Salvatore Nobiling Solovies si sposò per due volte. La prima in data 10 ottobre 1914 con Arsieni Benedetta (figlia di Oronzo) in Cattedrale (ACAL, Appendice dei battesimi, vol. VI, anno 1914, pag. 33v.) e, in seguito alla morte della medesima, contrasse matrimonio il 24 marzo 1916 con Masucci Fortunata (figlia di Antonio) nella Parrocchia di Santa Maria delle Grazie a Lecce (ACAL,Appendice dei battesimi, vol. VI, anno 1914, pag. 65r.). Tale secondo matrimonio durò pochissimo, perché Salvatore scoprì che Fortunata era già incinta e così decise di abbandonarla e andarsene a Roma, dove conobbe una certa signora Augusta Monaci, da cui ebbe dei figli: Gaetano e Athos, che però presero il cognome della convivente, in quanto Salvatore aveva lasciato il tetto coniugale con la Masucci.
[48]Ricordo che, tra i figli di Salvatore Nobiling, risulta proprio il padre di Massimo Madaro, la nostra fonte. Pertanto, detto padre, Benedetto, raccontava a Massimo ciò che gli diceva Salvatore Nobiling, che ben sapeva quanto accaduto a suo padre Gaetano Madaro, in quanto glielo poteva raccontare la madre, rimasta vedova, o persino il nonno Gaetano senior che morì nel 1898. Inoltre, Benedetto, quando suo padre morì, aveva già 32 anni e, quindi, poteva perfettamente aver sentito varie volte il racconto del sacrilego gesto.
[49]ACAL, Liber Baptizatorum, n. 123; anno 1888,c 19. Madaro Gaetana si sposò il 4 marzo del 1910 con Fuoco Biagio, figlio di Geremia da Mignano (nato del 1887), presso la Parrocchia di Santa Maria della Porta (ACAL, Appendice dei battesimi, vol. II, pag. 17v).
[50]ACAL, Liber Mortuorum, n. 10; anni 1887-1915, lettera M c.1r.
[51]ASL, Registro dei morti: Gaetano Madaro, anno 1898,n.398.
[52]Cfr. Gazzetta delle Pugliedel 2 giugno 1883.
[53]Cfr. L’Ordinedel 19 maggio 1883, p.3. Anno 2, mag. 19, fasc. 28.
[54]A.M. MORRONE, I pii Sodalizi leccesi, Editrice Salentina 1986.
[55]R. BUJA, Dalla strada alla storia, Manduria 1994, p. 216.
[56]Ibidem
[57]Il Risorgimentodel 25 marzo 1914, articolo: Tiriamo le somme, pp. 1-2.
[58]Ibidem
[59]Cfr. G.SCARAMUSCIO, Stampa e opinione pubblica a Lecce tra provincialismo, nazionalismo ed ecumenismo (1914-1918), in Idomeneo (2015),n.18, p.60.
Mons. Mauro Carlino
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